Quella della Calzoleria Ciccone è una storia che ci racconta molto di come si è evoluto il mercato manifatturiero degli ultimi tempi. E di come l’iniziativa, la passione e la tenacia siano ottimi alleati verso il successo.
Andiamo a trovare Matteo Ciccone nel suo negozio in Corso di Porta Romana, nel centro di Milano. Un ragazzo energico, la cui storia parte da lontano.
Precisamente a Pescara, dove la sua famiglia aveva un tomaificio, inizia a raccontare.
“La tomaia è la parte sopra della scarpa”, spiega. “Lavoravamo con grosse aziende e avevamo un po’ di dipendenti. Piano piano però il settore si è gradualmente indirizzato prima verso produzioni in Albania e Romania. Poi è avvenuto uno spostamento quasi totale verso la Cina”.
Quella di Matteo è una storia comune a molti altri artigiani come lui. Raccontare la sua vuol dire conoscere ciò che è successo a diverse realtà della Penisola. Che, come lui, non hanno potuto sopravvivere ad una guerra di prezzi e all’arrivo di una competizione agguerritissima dall’estero.
È a quel punto che la sua azienda ha perso tutto il lavoro. I clienti che prima si rifornivano da lui, volevano imporre in Italia gli stessi prezzi cinesi.
“Era infattibile”, conferma Matteo.
Quando suo padre viene a mancare, Matteo e la sua famiglia provano a resistere ancora qualche tempo. Ma, ad un certo punto, la scelta si fa quasi obbligata, e decidono di lasciare quel lavoro.
Matteo così si deve reinventare, percorrendo altre strade. Prima imbarcandosi sulle navi per un’esperienza in Africa. Poi, intraprendendo un lavoro come usciere all’Università di Chieti.
“In quel periodo, dato che il mestiere di uscierato mi lasciava del tempo libero, ero andato a chiedere ad un artigiano che vendeva dei sandali in stile Positano se gli servisse aiuto. Sono stato da lui un’estate e ho visto che riusciva a vendere cento, duecento sandali al giorno”.
Matteo prende allora coraggio e decide di esplorare anche lui quel sentiero.
“Avevo ancora un po’ di contatti con vecchi fornitori”, ci racconta. “Sono tornato da una fabbrica con cui lavoravamo e da cui ho recuperato suole e altri materiali. Ho iniziato quindi a vendere sandali in università. In un paio di settimane ne ho vendute cento paia”.
Forte di questi primi successi, si apre un negozietto a Pescara, lì dove aveva sede la vecchia azienda di famiglia. E le sue aspettative non vengono deluse, garantendogli un inizio promettente.
Ancora una volta, però, le circostanze avverse mettono un serio ostacolo sulla sua strada.
“È arrivata la crisi del 2008, ed è crollato tutto il mercato”. Compreso quello delle calzature.
Matteo decide quindi di tornare al suo lavoro come usciere, abbandonando, ancora una volta, e quasi definitivamente, la strada di famiglia.
Fino a che (altro colpo di scena), si presenta l’occasione per lui di salire a Milano, attraverso un appalto vinto dalla sua azienda. Ed è proprio a Milano che un amico di Matteo, lì da qualche tempo, gli aveva suggerito di salire per provare a vendere sandali in città.
Capita così che, anche grazie al supporto di alcuni ragazzi con cui condivide il suo appartamento, decide di riprendere la strada della calzatura.
Matteo inizia a realizzare nuovamente i suoi sandali. E, in occasione del Fuorisalone del 2015, presenta i suoi prodotti, riscuotendo un notevole successo.
“Il problema era che i clienti ci chiedevano dove fosse il negozio”, ci dice Matteo, “e non l’avevamo. Ho continuato perciò realizzando sandali a domicilio per chi me li chiedeva”.
Fino al settembre 2017. Periodo in cui, convinto ormai di tentare il tutto per tutto, Matteo si licenzia dal suo lavoro di usciere e decide di aprire finalmente la sua calzoleria.
“Siamo andati bene fin da subito”, ci racconta. “Nel 2019, grazie ad un investitore, abbiamo avuto anche l’opportunità di aprire il secondo negozio qui in centro”.
Ma quando tutto sembra andare bene, c’è sempre da preoccuparsi. Arriva infatti la pandemia.
“Mio padre diceva sempre: quando inizi a fare i cappelli, la gente nasce senza testa”, ricorda con ironia.
“Con il virus non c’era più in giro nessuno, nessuno camminava, nessuno consumava le scarpe. Abbiamo vissuto un altro momento in cui mancava lavoro”.
Ciononostante, l’attività ha resistito. Anzi, oltre ai lavori di riparazione, la Calzoleria Ciccone ha iniziato a proporre le proprie scarpe.
“I clienti che venivano a riparare le loro ci chiedevano se non avessimo dei prodotti nostri da vendere. Così abbiamo iniziato a realizzarli, dando il doppio servizio di vendita e manutenzione sulle nostre scarpe”.
Ed è questo che, oltre alla qualità delle calzature, contraddistingue il lavoro di Matteo. “Fra chi fabbrica le scarpe e chi fa il calzolaio c’è una grande differenza. Esistono competenze diverse, e io ho avuto la fortuna di averle apprese entrambe”.
E in cosa si traduce questo nella pratica, gli chiediamo.
“Vi faccio un esempio. Io non ti vendo scarpe a 200 euro, per le quali una risuolatura te ne costa 120”, ci spiega. “Molte aziende applicano determinate cuciture che vanno di moda, come la cucitura Goodyear. Che non aggiunge qualità, e in più, se devi risuolare, ti costa talmente tanto che ti conviene prendere delle scarpe nuove”.
“Io invece conosco quanto pesa la manutenzione della scarpa. E ti applico un’altra cucitura, di estrema qualità, la cui manutenzione ti costa un terzo”.
Si vede che Matteo sa proprio di cosa parla. E insieme a lui vogliamo addentrarci di più nel mercato delle calzature. Soprattutto di quelle artigianali. Per capire come funziona oggi.
Un ambito in cui, ci conferma lui stesso, regna un po’ di confusione. Soprattutto su un concetto molto in voga, ma anche molto inflazionato.
“Il fatto a mano per le scarpe non ha più senso di esistere”, ci dice. “Se io ti faccio una scarpa a mano, non posso chiederti meno di 800 euro. E non aggiungo niente in più di quello che può farti una macchina”.
“Anzi”, continua, “l’uomo può sbagliare, la macchina no”. Per cui, molto del fatto a mano di cui si sente spesso parlare in giro, rappresenta un termine quasi di facciata. Che ha poca attinenza con quella che è la realtà dei fatti.
“Così come la scarpa su misura”, continua. “Se devo fare prodotti del genere, ti devo chiedere 1500 euro per una scarpa. Solo per il tempo che mi serve per realizzarne una. Io utilizzo le macchine per ridurre il tempo e quindi i costi di produzione, e questo mi consente di utilizzare materie prime di ottime qualità. Per cui hai un prodotto di pregiata fattura a prezzi di mercato”.
“Esiste ancora quel mercato lì”, precisa. “Parliamo di veri e propri maestri del settore. Ce n’è uno a Modena, che fa scarpe a mano per i capi di stato. Quelle come le sue sono opere d’arte, il cui paio può costare fino a 35 mila euro. Ma si tratta di un’altra cosa”.
Con la recente guerra in Ucraina, ci dice, si sta verificando un aumento di tutti i costi di produzione. E loro, come molti altri, si sono trovati di fronte ad un bivio: aumentare i prezzi o ridurre la qualità.
E cosa avete deciso?, chiediamo
“Abbiamo aumentato i prezzi, ma dato al contempo una garanzia sui nostri prodotti per servizi di lucidatura, lavaggio, tacco piantina e altro”.
Matteo ci spiega anche in che condizioni versa oggi il mercato calzaturiero artigianale in Italia.
A quanto pare, non troppo bene. Per un motivo molto semplice.
“Non ci sono più giovani che sanno fare questo lavoro”.
Come mai?
“Il lavoro artigiano, parlando di quello del calzolaio, è legato all’immaginario del signore anziano chino sui tacchi in un polveroso scantinato. Questo ha ucciso l’appeal del mestiere, e danneggiato l’immagine di noi calzolai moderni. Non ha permesso un ricambio generazionale”.
Lo spostamento delle produzioni all’estero per le grandi aziende, ci spiega, ha impedito ad una generazione di esplorare questo mestiere. Con la mancanza di un mercato, diventa molto complicato trovare manodopera e crescere le future generazioni di calzolai e calzaturieri.
“Per non far morire questo lavoro, è necessario fare formazione di qualità”, ci dice Matteo. “Bisogna saper insegnare ai ragazzi in maniera diversa, farli appassionare al mestiere. È logico che se viene visto come un lavoro vecchio, nessun ragazzo potrà essere interessato ad esplorarlo. Bisogna trasmetterlo con nuove modalità”.
Proprio per questo, Matteo sta pensando a come poter formare nuovi professionisti del settore.
“Se non si fa così, questo mestiere potrà scomparire fra qualche anno”.
Grazie a Matteo abbiamo avuto modo di fare chiarezza su un atro settore in cui l’Italia e maestra. Sulla sua storia e sulle difficoltà che dovrà affrontare.
Nella speranza che ci sia un futuro florido per la calzoleria artigianale italiana, salutiamo infine Matteo.
Uscendo, mentre osserviamo le eleganti calzature in esposizione, siamo contenti di aver ascoltato questa storia.
Un bell’esempio di quel coraggio che serve per uscire dalle difficoltà. E che, in un modo o nell’altro, conduce a un lieto fine.