Irene Marasco e Emi Kato, gioielli artigianali

Irene Marasco e Emi Kato nel loro atelier showroom di Milano dove lavorano i loro gioielli unici sul loro antico tavolo da orafo

In un accogliente atelier nel centro di Milano, condividono lo spazio due bravissime artigiane orafe.

Sono Irene Marasco e Emi Kato, e oggi abbiamo il piacere di andarle a trovare per conoscere meglio la loro attività. 

Prima però, una precisazione doverosa: benché abbiano lavorato insieme e condividano tutt’oggi lo stesso spazio di lavoro, Irene Marasco e Emi Kato non sono un’unica realtà. Ma hanno ognuna le loro personalissime collezioni. 

I gioielli di Irene Marasco, da una parte. Il progetto Ovovivi di Emi Kato, dall’altra.

Ognuna, ovviamente, con le sue peculiarità

“Io mi rifaccio molto alle forme della natura, al mare, agli alberi”, inizia a raccontare Emi. Giapponese di nascita, dove studia come architetto e designer d’interni, inizia ad essere attratta dall’Italia e da Milano leggendo riviste di settore come Domus. 

“Volevo venire a Milano per forza”, ci dice. “Mi sono trasferita nel ‘95. Ho iniziato a frequentare amici architetti e designer. Loro avevano spesso a che fare con artigiani per il loro lavoro. Per cui, poco alla volta, ho imparato anch’io a conoscere questo mondo e mi ha colpito molto”. 

Inizia a frequentare corsi e a girare alcuni laboratori, fino ad approdare a quello di Davide De Paoli.

Scultore e artista poliedrico, ha avuto un ruolo importante nella crescita professionale delle due artigiane. 

Qui si conoscono le due amiche. Ed inizia una collaborazione che andrà avanti in un modo molto particolare. 

“Davide De Paoli ci ha presentato a Fiorenza Roveda”, racconta Irene Marasco. “Con lei abbiamo seguito, per 17 anni, il progetto della cooperativa sociale Uroburo, che si occupava di formazione e inserimento di giovani nell’ambito dell’oreficeria.”

Grazie a questo lavoro, Irene ed Emi hanno potuto ideare, progettare, realizzare collezioni di gioielli per la cooperativa

“La mole di lavoro si è via via ridotta e abbiamo infine dovuto abbandonare l’esperienza. E iniziato a gestire la nostra carriera in maniera autonoma”, continua Irene. “Da allora abbiamo creato le nostre linee di gioielli e messo in piedi questo spazio”. 

E, anche se, come ci dicono, fra produttori di gioielli esiste molta competizione, la loro amicizia gli permette di lavorare fianco a fianco. E condividere le loro energie.

“Abbiamo fatto lavori con architetti insieme, così come per spazi commerciali qui a Milano”, ci dice Emi. 

Tuttavia, i loro stili sono molto diversi.

“I miei gioielli sono molto geometrici e lineari”, specifica Irene. “Mi piace usare forme varie e sovrapporle. Mi piace molto anche realizzare delle miniature. Ad esempio, per la serie che ho chiamato ‘Borgo’, ho creato piccole casette, chiese, castelli…”. E ce ne mostra alcune. 

“Per quanto riguarda i materiali, ne utilizzo di vari”, continua. “A me piace anche usare l’alluminio, che è un materiale molto leggero, con cui posso creare oggetti voluminosi senza che siano scomodi da indossare”. 

La questione dei materiali è ciò che un po’ contraddistingue il lavoro di entrambe, e rappresenta probabilmente un punto significativo d’unione. Ed un motivo c’è.

“Abbiamo preso da Davide De Paoli questa passione per l’utilizzo dei metalli poveri”, ci dice Emi. “Come il bronzo, il rame, l’ottone. E anche il titanio”. 

Il titanio?

“È uno dei metalli più difficili da lavorare, perché è molto duro”, ci spiega. “La lavorazione è così complicata che, un po’ di tempo fa, un oggetto in titanio poteva costare più di uno in oro”. 

“A me piace molto mischiare i materiali”, continua Emi. “Questo ad esempio”, ci dice mostrandoci l’anello che porta al dito, “è bronzo bianco e bronzo rosso, con qualche brillante in mezzo”.

“Sperimento molto”, continua Emi Kato. “Uso anche metalli di scarto che trovo qua e là, tubi di rame, qualsiasi cosa mi sembri interessante da lavorare”. 

Poi entra nello specifico del suo brand, Ovovivi, spiegandoci da cosa è nata l’idea. 

“Avevo realizzato una lampada in occasione del Salone del Mobile. In quel momento stavo aspettando un bambino. E allora mi è venuto naturale dare al mio oggetto l’idea di una materia organica in evoluzione, come un embrione”. 

Ed è questo concetto che, ancora oggi, contraddistingue i suoi lavori. 

“Trovo ispirazione dalle forme naturali. Mi piace dare l’idea di qualcosa di vivo che cambia e si evolve. E sfrutto molto la tridimensionalità nei miei gioielli”.  

Dopo averci mostrato il loro stile, vogliamo sapere qualcosa di più sul lavoro dell’orafo. Quali sono gli strumenti principali e le sfide più grandi da affrontare. Inizia a spiegarcelo Irene. 

“Gli attrezzi fondamentali che non possono mancare ad un orafo sono il seghetto, per tagliare le forme, le lime per rifinire i bordi e per eliminare le sdentature. In questo modo il gioiello risulta liscio. Poi c’è questo piccolo trapano che ha diverse funzioni. Ora ha montata su la carta smerigliata, ma può essere utilizzato con delle punte per bucare, con dei gommini per lucidare oppure con delle frese”.

In un laboratorio orafo non può poi mancare un laminatoio. E il loro, ovviamente, non è da meno. 

“Qui si inserisce il lingotto d’oro per ottenere una lastra”, ci spiega Emi. “Si passa più volte regolando la macchina per ottenere lamine più sottili.”

“Come fare le tagliatelle”, interviene Irene sorridendo. 

E subito dopo ci mostra un altro interessante oggetto, tipico di una bottega orafa. Anche se utilizzato anche in altri ambiti. 

“Questa è la famosa trafila”, ci dice prendendo un oggetto simile ad un righello, ma con buchi di varie dimensioni che lo puntellano. “A seconda della sottigliezza che si vuole dare al metallo, si infila in uno di questi fori”, ci spiega. “Poi, con l’aiuto di una pinza e di molta forza, lo si tira per ‘trafilarlo’. E fargli assumere lo spessore voluto”.

“Ad alcuni metalli, come l’oro, è possibile far raggiungere un grado di sottigliezza molto elevato. Per materiali più duri l’operazione è più complicata”.

Sarà per questo che, per indicare un processo lungo e faticoso, oggi si dice ‘fare la trafila’? Rimaniamo con questo interrogativo. 

Intanto ci mostrano molti altri attrezzi interessanti. Come la bottoniera. Un birillo metallico dalla testa tondeggiante e un cubo solcato da semisfere. 

“Qui inserisci la lastra di metallo, e con un colpo secco di martello riesci ad ottenere una bombatura”, ci spiega Irene.

Poi ci mostrano il processo di saldatura. Che, come ci dicono loro, è una delle operazioni più delicate nel processo di fabbricazione di un gioiello. 

“È molto difficile saldare fra loro metalli diversi”, ci spiega Emi Kato. “Perché per saldare devi prima scaldare il metallo. Ed ogni metallo ha temperature di fusione diverse”. 

Un processo che è intrinsecamente legato all’ossidazione che subiscono i metalli

“Se prima non si usano degli acidi per impedire l’ossidazione, la saldatura scorre molto più difficilmente.”, ci spiega Irene. “Una saldatura ben fatta non deve presentare grumi”. 

Abbiamo capito che dare vita ad un gioiello è un processo incredibilmente complesso. 

“Molti ragazzi per cui facevamo i corsi di oreficeria in cooperativa, a un certo punto, abbandonavano“, ci conferma Irene. “È un lavoro che ti mette molto alla prova, e richiede una grande dose di pazienza”. 

E che vale la pena portare fino in fondo, per godere della bellezza e della soddisfazione di avere, come risultato, uno degli splendidi gioielli che realizzano Irene Marasco ed Emi Kato.

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